02/04/10

Lo cunto di De Cunto

Sette mazzate

Di solito la carenza di posti liberi dove parcheggiare è imputata a cause esterne dalla propria volontà. Di solito ce ne si fa una ragione e si gira un po’ per trovarne uno.
Per Annamaria la questione si poneva in maniera diversa: come in tutte le cose la mia inettitudine mi impediva di parcheggiare, e lei si arrogava il diritto di riempirmi di contumelie……
Come era brava nelle contumelie! Aveva imparato la tecnica della respirazione circolare appositamente per darmi addosso senza soluzione di continuità. Se a questo aggiungete che nel caso in questione la stavo accompagnando a fare compere, potrete capire come mi girassero le palle, e come fossi tentato di scaricarla per strada e andarmene. Al quinto “cretino” fermai la macchina, scesi, ed invitai compostamente Annamaria a mettersi al volante, perché mi mostrasse come si fa a trovare un parcheggio che non c’è. Lei raccolse la sfida con eleganza e si spostò al posto di guida. Io, prima di sedermi al suo fianco, ricircumnavigai la vettura raggiungendone il lato sinistro per chiarire a mia moglie le regole della sfida: davanti ai garage non vale! Per fare ciò commisi l’errore di infilare la testa nell’abitacolo….Non penso che lo fece apposta….sicuramente non mi aveva visto, anche se…fatto sta che Annamaria chiuse la portiera nel momento esatto in cui io introducevo il capo nel veicolo.
All’inizio fu il firmamento infinito, con gli astri e le galassie; poi un vortice di forme e colori senza senso, che pian piano si andarono organizzando e concentrando nel rosso dello smalto della panda e del mio sangue sulla moquette nera.
Mentre i passanti si accalcavano a me per sincerarsi delle mie condizioni, Annamaria parcheggiò e non mancò di farmelo notare.
Il mal di testa persistette tutta la notte e sfumò solo al mattino.
Singolare che un episodio del genere mi abbia riportato ai bei tempi della mia gioventù. Non mi sentivo così dagli anni dell’università, da quando ero studente fuori sede a Napoli.

A quei tempi le mazzate erano sette, a pochi metri l’una dall’altra.
La prima era pesante, una mazzata di braccio ingessato. O meglio, sarebbe stata pesante, perché in realtà era solo una minaccia.
La “prima mazzata” si chiamava Ciro, era basso e secco, e procedeva per gradi prima di diventar minaccia di mazzata: richiesta cortese di un euro-reiterazione di richiesta cortese di un euro- insistenza- insistenza infervorata- richiesta del portafoglio- minaccia di mazzata. Non diventava mai mazzata in atto sostanzialmente per motivi di stazza; ma, si sa, l’ingegno umano sopperisce alle mancanze del fisico: Ciro era un prestigiatore prestato alla strada, illusionista all’occorrenza. Da come muoveva il polso intuivi la presenza di un coltello che non c’era. Se voleva riusciva ad apparire alto e muscoloso. Ti veniva in sogno e ti dava i numeri vincenti del lotto per sfilarti il portafoglio il giorno dopo. Sospetto che anche il gesso, in realtà, fosse un’illusione ottica, perché erano anni che lo aveva, sempre lo stesso.
L’aveva dall’età di sette anni.
Quando era piccolo i genitori lo mandavano in punizione sul balcone, piovesse o ci fosse il sole. Ma anche quando non era in punizione Ciro preferiva stare sul balcone piuttosto che in casa. Soprattutto gli piacevano gli aerei, gli uccelli più grossi che avesse mai visto, in special modo quando volavano così bassi. Giurò a se stesso che prima o poi ne avrebbe catturato uno; e così passavano i giorni, i mesi, gli anni, ed ogni giorno, mese ed anno si ripeteva la lotta tra l’uomo ed il gigante bianco. Una volta un aeroplano gli passo così vicino che lui credette di poterlo catturare. Così si sporse dalla ringhiera e cadde, e cadendo diede una mazzata a terra con il braccio destro, per cui dovette mettersi il gesso. Aveva sette anni. I genitori smisero di metterlo in punizione sul balcone e lo spostarono in cantina.
Il settimo fu il suo anno più brutto, ma gli servì per terminare il tunnel segreto che scavò con un cucchiaino, e che portava dalla cantina al balcone.
All’età di otto anni Ciro potè riprendere a cacciare.
Una volta un aereo gli passò così vicino che gli diede una mazzata sul braccio destro con un’ala: Ciro avrebbe dovuto mettersi il gesso. Senonchè tutti si accorsero solo allora che il gesso non l’aveva mai tolto dall’anno prima, o così lui fece credere con le sue illusioni.

Era difficile non farsi irretire dalle illusioni di Ciro, non cacciare l’euro a cui mirava; ma quando vi si riusciva si andava incontro alla “seconda mazzata”.
Di lei non si sapeva nulla, eccetto che si chiamava Marco e che era sempre nascosto dietro qualche angolo.
La “seconda mazzata” era leggerissima, piccolissima, incolore, inodore ed insapore, ed aveva avuto un’infanzia molto più serena di quella della “prima mazzata”.
Marco nacque nel bagno di una scuola elementare che aveva già undici anni, e venne al mondo per difendere Ciro dai ragazzini che lo volevano picchiare. Ed era sempre lì che stava arrivando e non arrivava mai. Forse Marco non è mai esistito, ma Ciro lo chiamava lo stesso, ad alta voce perché lo sentisse da dietro quell’angolo:- Marco vien’ nu poc’ tu, che cchist dice can un tene sord’!-; ed allora Marco si manifestava in tutta la sua ipoteticità di mazzata incombente e procurava la cacciata dell’euro.

Anche la “terza mazzata” era piuttosto leggera, ma era reale ed in atto.
Ti arrivava da dietro correndo, sul cozzetto, ed era un bambino di otto anni: Remo.
La “terza mazzata” era stato allattato da una cagna randagia che a quei tempi se la faceva a San Domenico, e che l’aveva trovato in una cesta che galleggiava su un fiume di acqua piovana che scorreva per Spaccanapoli. Non fondò nessuna città, perché i genitori lo ritrovarono e, purtroppo, lo riportarono a casa. Ma era bravissimo a costruirsi fortini di cartone. Uno di questi divenne la cuccia della cagna. Un altro addirittura gli sopravvisse, quando venti anni dopo Remo fu ucciso in un agguato di camorra ( secondo le dicerie dalla “quarta mazzata”, il suo stesso fratello) perché aveva la linea di confine della sua zona di spaccio. Povero Remo, era un ingegnere edile prestato alla strada.
La “terza mazzata” non guardava in faccia a nessuno, colpiva anche gli energumeni senza aver paura; e più era energumeno l’energumeno più la beffa divertiva Remo.
E se qualcuno reagiva alla “terza mazzata” con una mazzata (ma bastava anche un’imprecazione) andava incontro alla quarta, la quinta, la sesta e la settima mazzata, che, come la “seconda mazzata”, stavano appostate dietro l’angolo in attesa, ma a differenza della “seconda mazzata” erano molto pesanti.

La “quarta mazzata” si chiamava Romolo e aveva sedici anni. Segni particolari: voglia di mazzate sul braccio destro.
All’epoca era una mezza calzetta alla quale piaceva fare a mazzate, ma già a ventuno anni sarebbe diventato un boss.
Che il fato gli era favorevole, che avrebbe fatto carriera, lo si poteva capire sin da quando era bambino: beccava sempre l’una sorpresa su cinque degli ovetti kinder e dalle uova di pasqua non gli usciva mai la sorpresa per femmine.
A dodici anni fece dodici al totocalcio.
A tredici anni fece tredici al totocalcio, e incominciarono a chiamarlo “’O’rre”.
A quattordici anni fece quattordici anni, e poterono sbatterlo nel carcere minorile di Nisida per eccesso di mazzate. Si fece un anno in carcere, dove fece quindici anni, uscì e restò fuori altri quindici anni. A trenta anni si beccò trenta anni di galera, ma ne uscì dopo venti. Dopo altri dieci anni morì, per cause, forse, naturali.
Quando aveva sedici anni, comunque, era il primo a soccorrere Remo quando qualcuno gli reagiva, rivendicando il diritto esclusivo di prenderlo a mazzate e/o ucciderlo.
La sua mazzata era quella più pesante.

L’avanzata della “quarta mazzata” copriva quella della “quinta mazzata”, Giovanni, lo sfigato del gruppo, il pusillanime, che si assicurava sempre di essere ben protetto dalle altre mazzate.
La “quinta mazzata” era meno pesante della quarta, ma più inaspettata, per cui comunque efficace; anche perché di solito interessava la zona genitale della vittima.
La sua vita fu delle più insignificanti: sostanzialmente nullafacente, zimbello degli amici e del quartiere, fallimentare in qualsiasi iniziativa che avesse intrapreso, Giovanni sosteneva che il giorno più bello della sua vita, il più significativo e gratificante, fu una giornata passata con Ruud Gullit all’età di undici anni, che vinse per estrazione a sorte in un concorso delle merendine.
Facendo un bilancio pesantemente negativo della propria vita, all’età di ventidue anni decise di quotarsi in borsa. Per due motivi:
1- per fare una volta tanto qualcosa di originale ed eclatante
2- perché un consiglio di amministrazione e un’assemblea dei soci avrebbero amministrato la sua attività di sicuro meglio di come sapeva fare lui.
La maggioranza delle azioni fu acquistata da un imprenditore australiano neonazista, che fece inserire nello statuto della Società Per Azioni “Quinta Mazzata”, come oggetto sociale, l’attività di mazzate a negri e omosessuali. Ma la quinta, senza le compagne, non era una gran mazzata: prendeva solamente e non dava mai.
Anche sotto forma di società per azioni Giovanni andò in fallimento. Fu liquidato coattivamente con iniezione letale all’ età di ventitre anni.
Una volta, facendosi scudo della “quarta mazzata”, non vide che colui che poi avrebbe colpito alle palle era Ruud Gullit.
Non se lo perdonò mai.

La “sesta mazzata” era pesantuccia anzicchè no e si chiamava Antonio.
Il suo motto era: “Nun song’nu salvadanar, m’è rà sul sord ‘e carta!”.
Antonio amava molto bere, e menava mazzate solo da ubriaco. Cioè sempre.
Una volta bevve così tanto che incominciò a pisciare direttamente Campari. Nell’ebbrezza credette di star pisciando sangue, e per l’impressione svenne; e cadendo diede una mazzata con la tempia sul bidet e morì.
Peccato, perché dopo la quarta, la sesta era la più pesante delle mazzate. Anche perché arrivava sul motorino, seduto al posto di dietro, e alla sua forza aggiungeva quella dello slancio.

Il motorino era guidato dalla “settima ed ultima mazzata”, Rufus, che dopo la “sesta mazzata”, parcheggiava compostamente il mezzo, raggiungeva la preda già agonizzante a terra e, di esterno destro, le dava la mazzata di grazia. E per ogni mazzata che dava declamava un aforisma.
Rufus aveva venticinque anni, era laureato in filosofia ed era ricercatore universitario.
Il suo motto era: “fatti il nome e vai a rubare”.
La “settima mazzata” era dell’idea che per vivere appieno la vita bisognasse fare qualunque esperienza, e così si stava facendo un master di due mesi nei panni di mazzata.
La settima era l’opposto della quinta mazzata: a venticinque anni aveva fatto di tutto, compreso un anno di nullafacenza; era stimato e ricercato dagli amici, e fu benaccetto anche nel gruppo delle mazzate.
Rufus elaborò una sua teoria socio-antropologica delle mazzate, che espose nel suo “la genesi delle mazzate: tra bisogno di comunicazione e cazzeggio”, edizioni “Il mulino”, del quale qui riportiamo un brano:

“[...] Il rocciatore che mette un piede in fallo difficilmente scalcerà nel vuoto una sola pietra;il suo gesto maldestro genererà una pioggia di pietre di forme e dimensioni diverse mista a frammenti di legno e polvere.[...] Così sono le mazzate che volano per Napoli: necessariamente tante e variegate; più grosse e men grosse, mazzate arrabbiate e mazzate divertite, mazzate ubriache o meditate. E nel loro volo, come i sassi in caduta libera, colpiscono quello che trovano sulla propria traiettoria: il ramo sporgente, la vecchietta, l’uccello che si trova a passare, lo studente universitario, il lama delle Ande, la 127 di tuo nonno…la vittima è una variabile del tutto aleatoria. L’unica vittima predeterminata è il suolo.”





Post scriptum
Durante la stesura di “Sette mazzate” mi è capitata una simpatica coincidenza: sono stato malmenato da una bambina di 8-9 anni.
Avevo già scritto la vicenda della “terza mazzata”, Remo, il bambino di 8 anni: l’avvenimento, quindi, non ha influito sullo sviluppo del racconto.
Essere picchiati da una bambina a Napoli è una cosa molto imbarazzante e umiliante, perché l’unica via d’uscita è la fuga; reagire alle mazzate con le mazzate è escluso per motivi etici, giuridici e sociali:
motivo etico: picchiare una bambina è ingiusto
motivo giuridico: picchiare una bambina è reato
motivo sociale: picchiare una bambina è andare incontro alle mazzate del cugino e dei suoi amici, secondo le dinamiche esposte nel racconto.
Ad ogni modo, l’episodio ha consolidato in me la convinzione che a Napoli la tematica della stravaganza delle mazzate sia di grande attualità: come in tutti gli altri campi, nelle mazzate l’estro partenopeo si esprime in tutta la sua creatività.
Del resto: “Vid Napule e poi mor’!”
clicca qui per un post a sorpresa!

Nessun commento: