Ancora incerta la partecipazione di pubblico al terzo giorno del Festival. Troppi i luoghi e gli orarida far quadrare per assistere almeno ad un paio di spettacoli, per cui forse in fondo non vale nemmeno la pena. E così Tony Servillo.
Uno degli ospiti più attesi, non riesce a riempire il Teatro Romano. Ma i più, tra quelli presenti, acclamano entusiasti uno tra i migliori attori che il nostro Paese può vantare.
La sua maniera impeccabile di usare toni e gesti è in quest'occasione al servizio di un racconto poco noto di Franz Kafka “Giuseppina la cantante ovvero il popolo dei topi”. Scritto nel 1924 mostra una morale assolutamente attuale:
crediamo spesso di sentire un canto melodioso ed invece non è che un fischio come tutti gli altri, o al contrario pensiamo di sentire solo un fischio e ci perdiamo la bellezza del canto; una riflessione dunque sull'incertezza del tempo presente dove è più facile uniformarsi ad una idea dominante che far valere il proprio giudizio personale che potrebbe cambiare le cose. Ed è a possibili rivoluzioni che anela lo spettacolo di Sergio Longobardi, “Budda, mon père etmoi”, primo studio-spettacolo di teatro-documentario andato in scena al Mulino Pacifico.
Piuttosto originale questo progetto che vede interagire il qui e ora, il corpo dell'attore, la sua presenza scenica con dei filmati ripresi con una telecamera-detective.
L'attore cambia maschere, abiti, linguaggio, si perde (a volte troppo) in rievocazioni personali, in percorsi psicanalitici o storico-sociali mentre si alternano immagini girate nelle periferie parigine che intendono indagare sulla precarietà del tempo presente.
Il dopoguerra, il boom, la Dc, il governo Berlusconi: l'iter di un potere che sempre più ci ha privati non tanto o non solo del presente ma sopratutto del futuro! Allora la sua personale ribellione verso il padre che lo voleva professore più che teatrante si fa metafora di una ribellione che deve avvenire contro ogni asservimento ad un potere che ci impoverisce e ci impedisce di saper trovare e saper vedere la bellezza...Napoli e Parigi, luogo di partenza e di arrivo di Longobardi diventano i due poli entro cui inserire questa riflessione, si fanno metafora di un mondo che va sempre più allo scatafascio.
Il teatro torna così ad essere necessario, si rifà strumento di riflessione e di catarsi collettiva. Centra in pieno l'obiettivo “Frateme” di Benedetto Sicca. Il giovane regista napoletano pur mettendo in scena un interno familiare del quartiere di Forcella ci racconta un'intera società che ha bisogno di rigenerare se stessa. I personaggi in scena sono i tre fratelli omosessuali Primo e i gemelli Secondo e Seconda, la madre di questi, un padre che non compare mai (quasi a rappresentare il rimosso), lo psicanalista poi compagno di Primo, l'insegnante d'inglese di Seconda che con lei intrattiene una relazione sessuale, il migliore amico di Secondo detto Frateme.
Le relazioni tra i personaggi vengono fuori a poco a poco in una scenografia essenziale ma curata in ogni dettaglio che insieme al disegno luci mostra la capacità del regista di saper raccontare usando tutti i linguaggi a disposizione del teatro.
Un teatro che è come una seduta collettiva di psicanalisi. Uno spazio teatrale che diventa il mondo che abitiamo, la storia di una famiglia che diventa la nostra storia.
Il primogenito (che non a caso si chiama Primo) è uno studente di semiologia e cita poco dopo l'inizio della pièce “Il nome della rosa” di Eco esponendo una sua personale teoria sul testo letterario. E alla base di tutta la pièce si dipana un sottotesto culturale-letterario non indifferente che va da “L'isola di Arturo”, romanzo in cui un ruolo preponderante hanno i rapporti familiari, a “Querelle” di Genet che affronta il tema dell'omosessualità.
Ma viene in mente anche Tolstoj con isuoi interni familiari o meglio ancora Eduardo che della città di Napoli aveva fatto il simbolo della vita stessa in tutte le sue sfaccettature.
La stessa emergenza rifiuti diventa, in questo spettacolo, il simbolo di un'Italia marcia che ha esaurito la volontà di cambiare. Sicca, senza essere retorico riesce ad affrontare un problema reale assurgendolo a male universale.
Il falò con cui si chiude la pièce è il fuoco rigeneratore da cui cominciare a ricostruire. Ma solo rompendo del tutto il legame con un passato di sevizie e di soprusi (emblematica l'uccisione finale del padre da parte di Secondo e l'allontanamento dalla famiglia d'origine di Seconda) si può costrutire una nuova società, che del passato recuperi solo i valori positivi.
E alla fine il canto liberarorio, catartico con cui si chiude il dramma conquista il pubblico.
In mezzo alla quantità di spettacoli di quest'edizione ecco che “Frateme” ci dimostra che il teatro può e deve essere necessario!
Marialaura Simeone
(fonte www.radiocitta.net)
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