23/12/08

Precipitazioni





Da noi non è mai entrato, né vivo né morto. Pure in questo modo a Natale marcavamo la nostra separazione dalle usanze: niente capitone. E' la femmina dell'anguilla, che non torna a mare e resta in acque interne ad ingrassare. Nelle tinozze della pescheria i capitoni roteavano in bolgia di dannati, anime scivolose che i diavoli afferravano con un retino e incartavano vive dopo la pesata. Alcune si sfilavano nel passaggio di mano, sgusciavano tra i piedi in cerca del mare. C'era, ma irrangiungibile anche per noi, stivati nel groviglio di vie della città vecchia. Il mare ci arrivava col vento di libeccio che risaliva i vicoli di corsa passando sotto infissi sgangherati. Portava aria salata e fumo di fusioni di altoforni che metteva ruggine in bocca, gusto vicino al sangue. Il libeccio condiva la città. Napoli era uscita decrepita dalla guerra. Tram e botteghe, scarpe e strade erano avanzi di consumazione. Niente era nuovo, di vernice fresca, nemmeno il quotidiano di giornata, che riportava notizie tristi, di seconda mano. Serviva ad incartare i capitoni. Vecchi erano pure i bambini, esperti di fame e incalliti in faccia a imitazione degli adulti. Svelti a scansare i colpi che calavano amari sul loro cranio rasato anche d'inverno, per via dei pidocchi.
(...)
Era bella Napoli quando pioveva. Allora i capitoni eravamo noi e strisciavamo lucidi ed impacciati come anguille fuori dall'elemento. Allora ammassati sotto portoni, come quelle nelle tinozze, invidiavamo i forniti d'ombrello. Chi ne aveva uno ne offriva metà al rifugiato sotto un balcone, un cornicione. La pioggia accoppiava la gente. Era bella Napoli strigliata a ondate rotolanti dal rialzo del vicoli verso la marina. Un capitone in fuga poteva trovare la via del mare, invece di finire spezzettato e fritto ancora vivo. ''Chisto nun more mai'', questo non muore mai, diceva fino a fine cottura chi se lo cucinava. Era bello il selciato il lastroni di pietra che pigliava l'aria di ripassato a cera. E belli pure noi, fradici stoccafissi, triglie, sogliole, cefali ed alici, tutt'una zuppa di pescati fuori tana dalla retata dell'acquazzone. Era Napoli sdrucciola, sciuliata, strofinata sceriata, senza panni tra le case, solo cielo e muri, muraglioni che spingevano gli occhi verso l'alto per togliersi dallo stretto. Sotto la pioggia alzavo la faccia al cielo e me lo facevo piovere addosso ad occhi chiusi per quei pochi secondi, prima che un adulto con uno strattone mi rimetteva a posto. ''Stu guaglione pare 'na maruzza'' (queso bambino sembra una lumaca), ''caccia 'a capa fore quanno chiove'' (mette la testa fuori quando piove).
Mi piaceva la pioggia ed il cupo delle nuvole, il cielo somigliava alla strada. Da cresciuto, il vantaggio di viaggiare in aereo è di frequentare le nuvole, vedere come stanno, e come fanno con le decine di gradi sottozero, e il sole sopra, e il vento che a una quota le arriccia e a un'altra le alliscia. Da bambino le pensavo pelose come l'ovatta, invece sono di bordi netti come il ricciolo del burro.
Pure chist'anno chiove pe' Natale, preferisco il verbo napoletano che fa chiovere e schiovere, anzichè 'piovere' e 'spiovere' e fa chiagnere, anzichè 'piangere'. Vo chiove, 'vuole piovere', diceva la gente gocciolante al banco della pescheria, poi cacciava di tasca i fogli di carta moneta, larghi come tovaglioli, da piegare in quattro. Passavano di mano, pigliavano l'odore della merce: baccalà, caffè, pane. Bella Napoli fradicia, gli starnuti rigovernavano il naso avvelenato dai più insolenti odori. Nelle ore di pioggia la città svecchiava, diventava nuova come l'aria. Poi un ultimo scroscio se ne andava al largo a sprecare la sua bella forza spazzolona sopra il mare già di suo pulito e strofinato a bianco.
Senza capitone a noi sembrava poco, sicchè si facevano per Natale altre astinenze: niente presepe, niente Epifania. Ci spettava invece lo spaesato abete con le pallucce fragili ed i pacchetti ammucchiati sotto, al posto di radici. Per me Gesù nasceva tirolese, era là che avevo incontrato gli abeti e la neve. E non era strano lassù nascere nella stalla, ch'era il posto più caldo per via del fieno e del fiato materno delle mucche. A Napoli Gesù finiva nato in un cartone di presepe, addobbato con sughero e col muschio che da noi non manca, perchè i vicoli ne producono di bello gnfio e vivo, per la perfetta umidità costante, come quella dei boschi di un versante nord.
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Il presepe è una volontà di ridurre in miniatura. E' un gioco i bambini che inventano di rovesciare le proporzioni e diventare giganti. Si goca al presepe per mettersi dalla parte del burattinaio, far muovere i cammelli, avvicinare stelle, assistere alla recita dei minuscooli, che all'insaputa loro stanno nell'imboscata di un'attesa.
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Senza presepe sono cresciuto a riparo dalla fantasia toccata a Gulliver, di essere colossale davanti ad un teatro di minimi. In tutte le altre case intorno, sopra e sotto, si allestiva al suono di zampone l'arrivo di Gesù e dell'ora zero della sua epoca esclamata come ultima. Da allora ha accumulato la bellezza di duemila Natali, a Napoli quasi tutti inzuppati.

Erri De Luca
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