La mafia aveva deciso di ammazzarlo, ma Lirio Abbate, giornalista dell'Espresso, è vivo grazie alle intercettazioni. Con il DDL stampato P2 sarebbe già morto.
(Fonte: L'ESPRESSO) Tre semplici frasi. La prima: «Ci hanno tolto un salvavita». La seconda: «Se i politici che hanno approvato questa legge fossero passati attraverso quello che ho vissuto io, probabilmente non l'avrebbero votata. Non così». La terza: «Non voglio parlare di me. Voglio solo continuare fare il mio lavoro». Certo, Lirio Abbate - giornalista, 39 anni, palermitano di Castelbuono - ha perfettamente ragione: in Italia chi «parla di sé» - anche quando rischia la vita - poi viene accusato di vittimismo, martirologio, protagonismo. Basta pensare a Roberto Saviano, alla sua decisione di usare la sua vicenda per una battaglia civile e quindi allo sport sempre più diffuso di attaccarlo, da Emilio Fede in giù.
E così a volte si preferisce non fare della propria storia un caso: anche se il paese - specie in queste settimane - ne avrebbe infinitamente bisogno. Figuriamoci, poi, scriverne sul proprio giornale: "L'espresso", per cui Lirio lavora da quasi un anno, occupandosi come sempre della mafia e dei suoi rapporti con la politica. Non si fa, non si suole fare. Sono in troppi, in giro, quelli pronti all'irrisione e allo scherno.
La storia di Lirio è iniziata nei primi mesi del 2007, quando lavorava ancora all'Ansa, corrispondente da Palermo. La polizia del Brancaccio - periferia sud della città- stava indagando su alcuni dei tanti traffici illegali che vi si svolgevano allora e vi si svolgono ancora. Per caso, come a volte capita, un giorno gli agenti che intercettavano le telefonate sono incappati in una conversazione che riguardava qualcosa di molto più grosso dei consueti business malavitosi del quartieri. La mafia stava progettando di ammazzare Lirio: con un agguato sotto casa sua, a Palermo. Voci sicure, dettagli operativi, toni arroganti. Il giorno dopo il giornalista è stato messo sotto scorta e, per un periodo di tempo, allontanato dalla Sicilia. La scorta c'è ancora, sempre. Anche sotto la redazione, in vacanza, ai convegni dove Abbate viene invitato a parlare.
Chi legge può intuire con quale spirito oggi Lirio abbia accolto la legge sulle intercettazioni. E quali pensieri si nascondono dietro quella semplice frase - «Ci hanno tolto un salvavita» - che non si riferisce più a lui, ma ai tanti e sconosciuti cronisti come lui che si occupano di Cosa Nostra in Sicilia, della 'Ndràngheta in Calabria, della Camorra in Campania.
Il quartiere Brancaccio, per la cronaca, è ancora oggi controllato dai boss Filippo e Giuseppe Graviano: quest'ultimo è il capomafia che disse nel 1993 al collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza «ci siamo messi il Paese nelle mani», riferendosi a Silvio Berlusconi che stava per entrare in politica. Oggi Berlusconi è l'uomo che ha voluto la legge che «toglie il salvavita» ai cronisti indipendenti. Brancaccio, va ricordato, è anche il quartiere dov'è nato e ha vissuto don Pino Puglisi, prete antimafia. Il 29 gennaio 1993, a Brancaccio, Puglisi inaugurò il suo centro. Otto mesi dopo fu ammazzato davanti al portone di casa. Mandanti dell'omicidio erano sempre i fratelli Graviano. Allora Lirio, me lo scrivi questo pezzo sulla tua storia? «Non ci penso nemmeno, oggi ho da fare».
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