Capitolo 1: Il Festival non è morto ma io mi sento poco bene
Sicchè alla fine, la “prima dopo trenta”, l’ha sfangata. Erano già pronti il corteo delle prefiche e i papiri, inamidati per l’occasione, dell’”io l’avevo detto”, quando, con un discreto colpo di coda, “Città spettacolo” 2010 ha raggiunto almeno uno degli obiettivi esplicitamente posti dal suo neodirettore artistico Giulio Baffi: chiamare a raccolta un numero sempre maggiore di cittadini e coinvolgerlo nei tanti percorsi allestiti dalla rassegna. Fra un concerto ed una rappresentazione, una mostra ed una performance, è un dato innegabile che il flusso di spettatori sia stato costante ed in media superiore a molte delle passate edizioni; altrettanto evidente la qualità di buona parte delle proposte, delle quali vorrei citare almeno “Blu” di Villa, formalmente impeccabile; “Viaggi da fermo - fermata Lisboa”, a cura di Massimo Lanzetta, lirico e suggestivo; “The Bugs Benni show”, con gli impagabili Veronica Mazza e Lorenzo Hengeller; “Nuvole barocche”, ottima prova degli attori di Carrozzeria Orfeo e “Dignità autonome di prostituzione” di Melchionna, che, al di là di qualche eccesso kitsch, ha avuto il merito di far vivere un luogo come Palazzo Paolo V ed un pubblico spesso esangue (soprattutto a causa del rancio precotto che gli si propina). Dunque, rispetto a questo, un riconoscimento va a Baffi, peraltro presenza finalmente quasi ubiqua nella nostra città, memore di ben più aleatorie direzioni. .. e qui, ahinoi, cominciano però gli alti lai, o, se non alti, almeno non a mezza bocca o peggio ancora strumentali, come è per alcuni costume consueto. Perché francamente temo che con una macchina organizzativa carente sotto svariati aspetti, una stampa nazionale (fra gli altri “Corriere della sera”, “Glamour”, “Panorama”) che dieci giorni “prima della prima” riportava (quando lo riportava) un programma i cui nomi di punta erano Malika Ayane ed Edoardo Bennato e un cartellone costituito per oltre la metà da nomi sanniti e partenopei, le prospettive di “rivitalizzazione” non siano esaltanti. Chiarisco subito che la questione, riguardo all’ultimo appunto, non ha niente a che fare con la il valore artistico ma molto con la lungimiranza: gli stessi artisti beneventani non sono forse cresciuti grazie al contatto con altre esperienze offerto dal Festival -anche, ad esempio, grazie ai lavori dei laboratori (che fine hanno fatto? L’unico presente era poi segnalato come spettacolo in prima nazionale: legittimo, ma differente come percorso). Non sarebbe più utile approfondire in questo senso la partnership con altre kermesse (positivo che siano già stati avviati dei rapporti) e fare pure un po’ di “export”? Non sarebbe più costruttivo offrire al talento dei nostri ragazzi, non una transitoria gratificazione, ma degli spazi permanenti di maturazione (la “città dei teatri”! con le tapparelle abbassate…) e una chance concreta e continuativa di lavoro in tutti gli ambiti inerenti alla cultura e allo spettacolo (ah, Technè Technè…)? O anche, perché non rendere “Universo Teatro” (manifestazione dalle grandi potenzialità che rischiano di non essere espresse) un concorso e magari ospitare in “Città Spettacolo” la compagnia vincitrice, innescando, se è un circuito virtuoso cittadino quello che si vuole creare, un meccanismo di reciproco pungolo? Perché, dato che in ambito nazionale -nonostante gli sforzi- si continua ad associare pochissimo il nome di Benevento a quello del Premio Strega, non rielaborare la sezione delle letture? Inoltre una rielaborazione non guasterebbe anche riguardo al format di “Raccontami” che, trasposto dal macrocosmo Campania al microcosmo Benevento, rimane qualcosa a metà fra pillole di teatro, attrattiva per (scarsi) turisti e troppo breve riscoperta indigena dei luoghi…
Capitolo 2: Quello che le prefiche non dicono
Eh già, fra un pianterello privato e un opportunismo pubblico, le prefiche non possono aver badato agli amici francesi e toscani che ho ospitato per qualche giorno in agosto. Nella promenade attraverso il centro ho potuto far non ammirare loro il Museo del Sannio con annesso chiostro (chiuso), l’Arcos (chiuso), l’Arco del Sacramento (chiuso), il MUSA, improponibile da raggiungere con mezzi pubblici (navetta? chi era costei?) e dulcis in fundo il Teatro Romano (ancora non era fra noi la Patty nazionale); in compenso, pur non essendo domenica, a S. Sofia andava in scena un bel matrimonio e ci siamo prontamente imbucati, prima di rifocillarci con la gastronomia locale (San Torrone, una prece per noi) e di dedicarci alla lettura del nuovissimo materiale informativo rivolto ai vacanzieri, compilato rigorosamente in italiano dalla prima all’ultima parola. Poi, mentre l’infanzia lanciava la qualunque ai cigni della Villa, Benoit e David mi hanno freddato con alcune osservazioni spicciole, sintetizzabili in : “Molto carina Benevento -e i gggiovani che sbocchi lavorativi hanno? Qual è in sostanza la sua identità culturale?”. Evidentemente, pur provenendo da Saint-Étienne, ex capitale dei minatori d’Oltralpe, reinventatasi abilmente quale città del design, non hanno colto il nostro palese essere pirandelliana città (vedi sopra)“dei teatri”, “della musica”, “della danza” e di così è se vi piace. Beninteso, non è negativo in sé -ci mancherebbe- il tentativo di operare nei diversi ambiti d’azione delle Muse (che è certo un piacere per tutti assistere a tal concerto o a talatro spettacolo), ma se poi abbiamo un glorioso Museo pressoché in disarmo, con i suoi beni omaggiati da fiocconi rosa confetto in occasione delle mondanissime cene Stregate, se l’Arcos è raro caso di museo di arte contemporanea che non sta predisponendo un fondo di acquisti tale da permettere una permanente -e dunque, privo di mostre in corso, rimane chiuso- se, in termini diversi, il De Simone, il (fu?) San Nicola, il Piccolo Teatro Libertà, il Teatro Romano vivono presenti incerti e nebulosi futuri, se rassegne come “Riverberi” e la neonata “Zona Franca” promettono meritoriamente di diventare punti di riferimento per appassionati ma non sono sostenute da un contesto strutturale adeguato, se si sprecano fiumi di denaro per una “Benevento Città Luce”, il cui rapporto costi/benefici farebbe dubitare qualsiasi matricola di un corso di marketing, se la scrittrice Valeria Parrella mi conforta dicendomi che amici napoletani seguono e frequentano ancora “Città Spettacolo” -ma a me pare purtroppo un dato di fatto che il Festival non costituisca più da tempo un brand e che ovunque (per rimanere in Italia) iniziative intelligenti e di spessore possano invece riuscire nell’impresa, se tanti campanili hanno (per fortuna) il loro spicchio d’orgoglio identitario (cosa vi dicono i nomi di Sarzana, Modena, Giffoni, Ravello, Perugia, Santarcangelo, Taormina, Mantova, Spoleto, Città di Castello, Melpignano, Pesaro, Pordenone e potrei continuare per righe), se infine noi potremmo batterci ad armi persino impari per potenzialità (nostre) in questa fetta di mercato e tendiamo invece a far prevalere la forma sulla sostanza… cui prodest?
Finale: E tutti vissero. Felici e contenti!?
“Cui prodest?” non rimane quesito retorico. Nella patria del “mors tua vita mea” malamente truccato da rivalità partitiche, “degliamicidellamici”, della trattoria bipartisan, dell’inciucio, del tengo famiglia, notoriamente tutti fattori di crescita civile e sociale, possiamo consolarci con un “Ma Catanzaro o Foggia stanno peggio (poverelle)” e d’altra parte a Milano piove sempre e in Val padana c’è la nebbia… andando così poco oltre lo svincolo di Caianello. In una città a cui non mancano la Storia (volendo, anche le leggende) e i talenti, in cui alcuni privati attivissimi contribuiscono all’offerta culturale e in cui la qualità della memoria (il dove sono rispetto a dove ero) può e deve smettere di essere l’optional di quattro gatti consapevoli e rompiscatole, vorrei che chi di dovere (e quindi, in fondo, tutti) prendesse piuttosto in prestito un celeberrimo exergo letterario, il forsteriano “Only connect”, per scrivere qualche pagina nuova. Soltanto, connettere. Le energie, le competenze, la buona volontà e la buona fede, per cominciare. Una volta, questa si poteva anche chiamare politica.
N.B.: "La solitudine dei numeri primi" è un articolo pubblicato (ovviamente da me medesima...) sul numero attualmente in edicola di "Messaggio d'oggi".
1 commento:
che amarezza. a questo punto dobbiamo fare qualcosa: o un collettivo o una serie di omicidi.
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