17/03/11

Lo cunto di De Cunto: Accaeffe e il divieto di sosta

«La penna di De Cunto è un contrabbasso che ti spara sulla faccia ciò che pensa della vita»
Demetrio Stratos
«….Mi illumino d’immenso!»
Giuseppe Ungaretti
«Buona parte della stabilità mantenuta dai nostri mercati finanziari la dobbiamo a De Cunto»
José Manuel Durão Barroso
«La casa di De Cunto in via Salvator Rosa era intestata ad Alleanza Nazionale, e in realtà si trova a Montecarlo»
Maurizio Belpietro

Accaeffe e il divieto di sosta
Questo cunto è dedicato alla sezione napoletana del PD. Grazie di esistere!


Un muro scrostato proprio sotto ad un grattacielo. E una pompa di benzina, che pare uscire proprio da una crepa di quel muro. Un secchio abbandonato su un muretto abbandonato sotto un maxi cartellone pubblicitario abbandonato al margine di una strada di periferia (abbandonata). E poi pali infiniti. Foreste di pali. Di segnaletica stradale, della luce, di pubblicità, di indicazioni. E pali e basta, nel senso pali senza niente sopra, il palo per il palo, pali fini a se stessi, la perseitas del palo, l’idea platonica del palo. Palo Assoluto. E più la città si fa centro, più secerne pali (per la serie “più palo per tutti”). E non bisogna sottovalutare quanta parte dello squallore urbano fanno i pali lasciati così, ad cazzum.
E poi capannoni industriali deserti, o così pare, tralicci elettrici, colonne d’auto, immondizia, palazzi abitati di dieci piani ventola esterna dotati disposti in batteria, insegne numerose con scritte in cinese (mandarino, si suppone), facce brutte, lavori in corso, aerei che atterrano nel centro abitato.
Questo vedeva Hermann dal finestrino dell’autobus arrivando a Napoli.
Aveva quasi riattaccato, una settimana addietro, quando aveva ricevuto la telefonata che l’avrebbe portato dov’era adesso; non per quello che gli si comunicava, ma perché, dalla voce dell’interlocutore, aveva pensato ad uno scherzo telefonico. Era una voce, come dire, da cane del programma di Paolo Limiti, una voce artificialmente stridula, una voce che al confronto i Cugini di campagna sono Barry White. Era la voce di Rosa Russo Iervolino.
Qualche mese prima un alto funzionario dell’assessorato ai lavori pubblici di Napoli aveva visitato il centro di Benevento e ne aveva apprezzato il riassetto urbanistico. Costui era stato decorato anni addietro con medaglia d’oro al merito e alla competenza (era riuscito ad ultimare un fortino Playmobil sfuggendo alla tentazione di masticare qualche pezzettino di plastica necessario per l’opera, inconveniente in cui erano incappati tutti gli altri colleghi dell’assessorato, tanto che si era incazzato e messo a piangere Robertino, figlio di un amico del cognato di Bassolino, il quale Bassolino, per il disappunto, aveva deciso di punire tutta la giunta, la cittadinanza nonché, approdato alla Regione, la regionanza, e aveva creato la Metrocampania Nord-Est. Ma questa è un’altra storia). Insomma, il tizio era un pezzo grosso del settore e, durante il giro perlustrativo a Benevento, aveva chiesto ai suoi accompagnatori chi avesse supervisionato i lavori. Non si sa come a quella domanda spuntò fuori il nome di Herman Franchini, che in realtà all’epoca dei lavori operava a Roma. Probabilmente, per timore di un giudizio negativo dell’Alto Funzionario, si era cercato un capro espiatorio. E invece l’Alto Funzionario chiedeva chi avesse condotto i lavori perché era particolarmente colpito, quasi incredulo innanzi a tanta perizia. Anche perché, quando aveva chiesto «E quest’opera chi l’ha fatta?» e gli avevano risposto «Hermann Franchini», stava indicando l’Arco di Traiano. Sì, quest’Hermann Franchini, autore di cotanto arco, meritava di sovraintendere al riassetto urbanistico della capitale del Mezzogiorno.
Ed ecco che Accaeffe si ritrovava su quel pullman a schivar pali con gli occhi con in testa le parole della Iervolino: «Franceschi, lei ha la massima fiducia e carta bianca, crei nuove strade, abbatta palazzi, sradichi pali, se crede». E appunto sradicar pali sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto. In piazza Garibaldi ne aveva contati 438, di cui ben 158 erano divieti di sosta. Attraversare quella bolgia era come dover fare lo slalom gigante assieme ad altri mille pedoni, dovendo stare al contempo attenti non essere investiti o borseggiati.
Hermann scese dall’autobus e subito incappò in due divieti di sosta identici posti l’uno a un metro e mezzo dall’altro. «Ma che sfaccimma di cosa!» pensò, e si infilò una mano in tasca per prendere la macchinetta fotografica. Non l’aveva portata. Fortunatamente poté acquistarla da un brav’uomo che passava di lì ad un prezzo stracciato; così, quando arrivò al suo nuovo ufficio, aveva un mattoncino in tasca.
Concluse le presentazioni e i convenevoli con i suoi nuovi dipendenti («dottò dottò, benvenuto, o’ vulit’o’cafè?, dottò a pizz’, we we wè, o’ mandulin’» ed altre cose partenopee) si recò dall’ingegner Salierno, che gli era stato presentato come il saggio anziano del team, quello per il quale passava ogni decisione, in qualche modo e a vario titolo.
«Ingegner Salierno, sono molto contento di fare la sua conoscenza» disse Accaeffe approdando alla vetusta scrivania
«dottò dottò, benvenuto, o’ vulit’o’cafè?, dottò a pizz’, we we wè, o’ mandulin’» rispose ello per ossequio alle buone maniere, e poi si dispose all’ascolto delle nuove direttive.
Hermann spiegò all’anziano che il numero dei pali siti in piazza Garibaldi andava quantomeno dimezzato, che purtroppo per cause di forza maggiore non aveva ancora potuto effettuare rilievi fotografici, ma lo avrebbe fatto presto, che pertanto non aveva ancora individuato quali pali eliminare. Tranne uno, di fronte all’hotel Terminus, che sicuramente doveva essere rimosso. Anzi, voleva che fosse rimosso quella mattina stessa, trovandosi tal palo troppo vicino ad un altro della medesima specie per risultare di una qualche utilità.
«Ahè, dottò, aggio capito di quale palo parlate» ribattè Salierno «mica è così facile». E via a spiegare che, in realtà, quel palo a qualcosa serviva, perché tutto ciò che è reale è razionale, e se c’è serve. Tentò di farlo persuaso di questa filosofia dalle conseguenze forse un po’ conservatrici, ipotizzando, ad esempio, la necessità di dover attaccare al guinzaglio i cani, e al palo i guinzagli. Prospettò un mondo da incubo in cui i cani – copiosi cani – vagolano strascicando guinzagli. Parlò della necessità delle persone di appoggiarsi se la testa gira. Disse che two is megl’ che uàn. Disse che un palo è pur sempre un bell’e sano simbolo fallico, che sprona il cittadino al rispetto dell’autorità. Tutto ciò non convinse però Hermann che, saldo nella sua determinazione, spedì due operai a rimuovere il palo (reale ma irrazionale). Ciò gli procurò l’ostilità del sindacato, non si era mai visto che un capo, appena arrivato, mandasse a lavorare i lavoratori alle dipendenze del Comune, e Zulù dei 99 Posse scrisse una canzone contro di lui. Ma in tutto ciò i due operai, quella mattina, tornarono all’ufficio alle 12.37 dicendo che non era stato possibile rimuovere il palo perché dal Comune non erano d’accordo.
Vi lascio immaginare lo sconcerto di Hermann. Ma come, prima a dire «ha carta bianca, faccia ciò che crede» e ora, alla prima mossa, già un veto!
Telefonò alla Iervolino con l’intenzione di protestare formalmente, e si sentì rispondere che, in effetti, la carta bianca, nei suoi confronti, bianca rimaneva, salvo che per quel palo però. Non era un palo comune, quello, era un palo con dei santi in paradiso. In confidenza parlando, appoggiato a quel palo un assessore della giunta comunale aveva pomiciato per la prima volta con quella che sarebbe diventata sua moglie, e quindi, quando si parla di sentimenti, si sa, bisogna andarci cauti. Sarebbe stato uno sgarbo, meglio evitare – tanto più se l’assessore in questione è uno di quelli che minacciano di passare all’opposizione – in fondo che male fa un palo?
Accaeffe si incazzò in maniera sproporzionata, soprattutto se si tiene presente che stava pur sempre parlando col sindaco della terza città di Italia – ma va anche detto, a sua discolpa, che la voce della Iervolino incattivisce e inselvatichisce. Prese a criticare il malcostume, tipico soprattutto al sud, di considerare la cosa pubblica come una cosa privata, di rendere difficoltoso ogni cambiamento migliorativo, di far finire sempre tutto a tarallucci e vino “dottò dottò, benvenuto, o’ vulit’o’cafè?, dottò a pizz’, we we wè, o’ mandulin’”. Disse che gliene passava per il cazzo delle pomiciate degli assessori, che lui non aveva e non voleva legami di comodo con chicchessia né temeva il potere. Disse che lui era uno serio e pulito, e che se si incazzava combinava un macello. Ci mancava poco che dicesse che l’arco di Traiano l’aveva fatto davvero lui. Quel che avrebbe fatto, disse, comunque, sarebbe stato abbattere quel palo, tant’è vero che si chiamava Hermann.
Incominciò a redigere ricorsi e a organizzare campagne di opinione. Sollevò un polverone. Zulù dei 99 Posse scrisse una canzone a suo favore. Insomma, tanto fece che alla fine la spuntò, e quel maledetto palo fu rimosso.
Ciò che è successo dopo lo sanno tutti. Almeno tutti quelli che negli ultimi mesi hanno visto almeno un telegiornale. Centinaia di morti, migliaia di feriti e sfollati, palazzi distrutti, danni alle infrastrutture per milioni di euro, piazza Garibaldi rasa al suolo. Hermann finì sotto processo per strage e disastro colposo; ma ciò che, anche ora che è agli arresti cautelari in attesa di giudizio, gli rode di più, è ammettere che Salierno aveva ragione, quel palo serviva: era un palo portante.
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3 commenti:

Lala ha detto...

Ohhh bravo l’hai scritto! appena posso lo leggo :D

piergiorgio ha detto...

ahahaha, povero Hermann!!!

accaeffe ha detto...

molto bello, sono onorato ! però io non faccio l'urbanista...per fortuna !! ;)